Diritti Democrazia Libertà secondo Gigi Brossa 

Intervista a Luigi Brossa


Luigi Brossa, dirigente ATC, ha una lunga militanza nella sinistra. Nel PD ne è stato uno dei più convinti sostenitori, provenendo dal movimento referendario, poi nelle fila del Pci-Pds-Ds sostenendo la svolta veltroniana, e poi per Renzi e la riforma costituzionale bocciata dagli elettori. Tuttavia non ha aderito ad Italia Viva e ha aderito invece ad Azione. Deluso dalla posizione del terzo polo durante l’elezione del sindaco di Torino, ha quindi sostenuto Damilano. Ha votato centrodestra alle ultime elezioni.

Gigi, queste nostre interviste nascono dalla volontà di affrontare temi come democrazia, diritti e libertà secondo una visione nata dall’esperienza “in campo”, dal vissuto personale e dal modello che uno ha elaborato. Partirei da qui, da una tua precedente affermazione sulla democrazia come strumento di affidamento fiduciario in un clima di competizione. Sembra molto operativa come visione, puoi dire di più?

La società per funzionare al meglio deve trovare regole e strumenti, volendo anche filosofie e persino poesia. Da questo punto di vista richiamo qui i testi di Walt Whitman, dal suo amore per la fratellanza e la democrazia. In democrazia è dunque centrale l’idea di trovare il punto da cui trae origine la legittimazione per esercitare il potere delegato. Un ateo come me deve avere un appiglio che conferisca senso alle decisioni. Per chi ha Dio, ci sono le Sacre Scritture, la Bibbia. Chi non crede deve trovarne un altro e la democrazia soddisfa questa ricerca: un accordo tra i diversi punti di vista, da cui deriverà naturalmente una posizione prevalente, maggioritaria ma costruita sulla base di un dibattito pubblico, di un confronto, di una sensibilità percepita, della necessità di migliorarsi anche con la critica.

Questo significa che alla fine non è il governare tutti assieme, ma il trovare dei momenti in cui, al di là delle ideologie, questa legittimazione reciproca fa sì che ci sia uno scambio di idee?

La cosa necessaria è che ci si riconosca come attori che intervengono non opportunisticamente ma sulla base di un progetto. Ti puoi confrontare su cos’è sbagliato o giusto, ma come dice Hume, “la verità nasce dal dissenso tra amici, cioè tra persone che si stimano, si riconoscono ma che dissentono. Quando metti insieme due dissensi, riesci a tirar fuori la sintesi necessaria a individuare una verità. Poi sarà sempre comunque una verità a termine, ma condivisa, o meglio, elaborata congiuntamente. 

 Questo però fino ad adesso non è avvenuto?

Avviene, avviene, magari con miliardi di contraddizione, con opportunismi esasperati, con l’uso spregiudicato del pericolo fascista da parte della sinistra, ma io credo un po’ di riconoscimento già ci sia perché siamo un paese democraticamente robusto.

Il fatto che ci sia riconoscimento tra gruppi dirigenti non significa che questi gruppi dirigenti nella loro comunicazione con il resto del mondo siano altrettanto trasparenti; è solito osservare nei consigli comunali una sorta di amicizia tra persone distanti politicamente, che poi pubblicamente nei confronti della propria base diventano feroci nei confronti dell’avversario. La legittimazione dovrebbe esserci anche nella comunicazione.

Secondo il radicale Bandinelli ci sono tutta una serie di prove per capire se e quanto siamo democratici. Due in particolare: 
– Il passaggio dei sistemi di potere (dalle vittorie elettorali) e le regole che stabiliscono questi passaggi
– La partecipazione degli elettori, attraverso i referendum e le altre forme di partecipazione. 

Sul primo non vedo problemi, sul secondo sì e siamo in crisi con una costante diminuzione degli elettori. Ci sono pericoli secondo te?

Penso di no. Penso che le grandi democrazie avanzate abbiano un tasso di partecipazione basso in conseguenza della convinzione che una reale possibilità di modificare con il voto le politiche proposte sia marginale e non si ritiene possibile un reale stravolgimento. Non è certo possibile fare una rivoluzione quando il margine su cui si può operare risulta limitato ad un 3% sul prelievo fiscale o su uno spostamento dei benefici fiscali marginali tra categorie. È normale pensare “che io voti uno o l’altro alla fine cambierà poco”. Quello che vedo negativamente, forse anche per la mia storia di movimentista, è questa debolezza del impegno civico, della partecipazione civica, del darsi e farsi politica. Questo per me è un problema. Vedo i giovani disinteressati, anche i miei figli lo sono, distanti nella partecipazione, nelle manifestazioni e nelle iniziative che magari non sono all’altezza delle loro aspettative. Su temi come l’Iran, come la Russia dovresti almeno scendere in piazza in 1000 non in 25 come ci capita di fare.

È un problema solo italiano

Non conosco abbastanza le altre realtà, ma questo senso di stanchezza forse lo vedo più in Europa che negli Stati Uniti. 

Perché i giovani scendono in piazza per il clima ma meno per la solidarietà? Perché il clima porta ad una perdita personale, mentre la solidarietà no?

Perché è più evidente, perché lo vivi di più, perché lo senti di più come problema tuo.

A proposito di “democrazie”, quest’anno sei stato a Cuba, paese verso il quale c’è una antica forma di innamoramento. Raccontaci,

Io ricordo che è stato un innamoramento per molti amici, un entusiasmo in cui c’è anche una componente sessuale potentissima. Sono stato a Cuba a giugno per 22 giorni, in un momento complicato per via di un uragano peraltro arrivato solo due settimane dopo l’uscita dal lockdown. Ho avuto pena per le loro condizioni e per la fatica con cui sono costretti a vivere. C’erano pochi turisti, eppure all’Avana facevo fatica a trovare le bottigliette d’acqua. Loro sono un popolo splendido, ma ho visto infrastrutture e strade disastrate, un mangiare modestissimo. Tornato in Italia ho invitato a casa due amici che conoscono l’isola benissimo già dagli anni ‘80 e mi hanno raccontano che quando tu andavi là in quegli anni, si viveva con un tenore e una qualità della vita superiore addirittura al nostro. Avevano è vero la libreta, ma era molto ricca, e poi mangiavano fuori molto spesso, cosa che io ho visto rarissimamente. Poi, con la crisi dell’Unione Sovietica e il crollo del muro, la situazione è andata progressivamente peggiorando. 

Quanto in questa crisi economica c’entrano le sanzioni americane?

Sicuramente molto, ma soprattutto c’entra il crollo dell’Unione sovietica. C’è molta autoironia sul tema in quel popolo sofferente ma simpatico: “Oggi piove è colpa degli americani, de los gringos; l’uragano è colpa de los gringos”. Sanno quindi che ci sono responsabilità gravi da parte del loro governo. 
Quando c’era il Comecon, le diverse economie avevano singole specializzazioni. Cuba aveva la filiera dello zucchero su cui concentravano tutta la loro capacità produttiva. Quando è venuta meno l’Unione Sovietica, il mercato dello zucchero è crollato, le entrate sono calate verticalmente e non hanno più potuto importare carne e grano. Un dato impressionante: negli anni a cavallo del crollo del muro, il peso fisico medio dei cubani è sceso del 30%, cioè se tu pesavi 80 kg alla fine ne pesavi 24 kg in meno. Adesso hanno differenziato le produzioni, ma il cuore del tracollo è quello, non le sanzioni. 

Quello che hai detto su Cuba ricorda Hasta la bicicletta siempre, il racconto cubano di un ciclista svizzero che gira il mondo in bicicletta. Parlando con la gente vera, e non con l’establishment come può capitare nei viaggi organizzati, descrive, un po’ come hai fatto tu, un popolo anche ironico, che fa battute su sé stesso, che vivacchia di espedienti cercando di aggirare i vincoli e gli obblighi imposti, per esempio, per l’affitto delle case. Un paese bello, straordinario, con persone con cui puoi anche avere delle relazioni di amore più o meno importanti, ma un paese ucciso dai propri dirigenti dai propri padri.

Ucciso dalle idee sbagliate.

Ritorniamo alla democrazia. Dici che non ci sono pericoli, ma secondo te non se ne intravvedono negli ultimi provvedimenti come quello del rave?

Mi sembra più che altro una polpetta al limite buttata in pasto alla popolazione più dura e pura che vota destra. In sé e per sé non credo che comporti alcun problema. Poi credo e spero che nel tragitto parlamentare la cosa si corregga. 

E per quanto riguarda la caduta di interesse dei giovani verso la politica, si tratta di qualcosa di fisiologico o possiamo fare qualcosa?

A partire appunto dagli anni di Tangentopoli, tutto il mondo giornalistico e tutti quelli che si occupano di comunicazione hanno dato per scontato che la politica sia il male, che chi si occupa di politica lo fa solo per interesse personale. Sono campagne sbagliate passate per i grandi mezzi di comunicazione. Paradossalmente però ho più fiducia che il contrasto necessario a quella falsa visione dell’aspirazione politica possa venire dal centrodestra, soprattutto dal partito della Presidente del Consiglio, che non dalla sinistra, che invece da questo punto ha spostato ciecamente quelle campagne. 

Ritornando alla legge sul Rave, tu dici che è solo una polpetta, però si presuppone un’altra fattispecie di reato che non è mai una bella cosa ed è un pochino in contraddizione con quell’idea che avevamo del centrodestra che sui problemi della giustizia ci teneva avere una posizione non se non liberale almeno diversa. I primi passi non sembrano andare tanto in quella direzione.

Su questo hai ragione.

Per quanto riguarda l’introduzione di una fattispecie di reato si può fare un paragone tra la legge sul rave e la legge Zan?

Questo forse è eccessivo. Nel DDL Zan c’erano passaggi da correggere e si è voluto rimanere fermi sule proprie posizioni. Sono della stessa opinione di Renzi: la discussione è stata irrigidita fino al punto di rottura, non valutando le conseguenze e rinunciando alla possibilità di temperare la norma che oggettivamente aveva bisogno di essere corretta. Sì, penso proprio questo.

Tornando all’argomento, è possibile che questo governo, che ha in Piantedosi un elemento di destra legato ad una polizia con forti simpatie per Fratelli d’Italia, farà ancora dei tentativi di esercitare il pugno duro anche con la giustizia, perché elemento troppo identitario per loro e specialmente in ambito elettorale? 

Temo di sì.

Questo significa che, secondo te, se dal punto di vista della democrazia non ci sono problemi e la sinistra esagera ad evocare certi pericoli, per quanto riguarda diritti libertà non possiamo aspettarci nulla di positivo. È così?

Questo è fuor di dubbio. La destra su questi temi ha elaborato pochissimo e non è possibile che possa portare contributi necessari. Però, onestamente, io penso che sposteranno il loro raggio di azione più su altri temi come l’ordine pubblico, lo spaccio, la piccola delinquenza, l’occupazione di case.  Temi sensibili per il proprio elettorato, che potremmo sintetizzare in uno slogan: ripulire le periferie e rimettere ordine. 


Lavoreranno più sulla percezione che sulla realtà, perché i dati ci parlano di una criminalità in diminuzione.

Questi sono i post e i tweet che fa Salvini.

Da un punto di vista politico è quanto ci possiamo aspettare dal centrodestra, però la tua idea dei diritti è cambiata negli ultimi anni, è sempre la stessa, come la definiresti? Il Brossa di oggi è differente da quello di due anni fa?

No, sono sempre pronto a scendere in piazza per i diritti di tutti. Ma tornando a quel discorso che facevamo prima sul DDL Zan, parliamo di come questi diritti debbano essere declinati e non solo urlati. Una cosa che mi ha sempre molto colpito, e che non ho mai mancato di segnalare è, per esempio, che per le unioni civili è dovuto arrivare Renzi, mentre la vecchia sinistra storica non è mai riuscita ad intestarsi il merito del risultato, come per il divorzio. Esattamente quello che vedo adesso nella dicotomia tra Bonaccini e Schlein , la ditta da una parte e il presidio dei diritti dall’altra, che poi si risolverà nella solita chiacchiera che impedisce di produrre un disegno di legge, che sia uno. 

Probabilmente, la Meloni non toccherà i diritti fin qui acquisiti, ma li renderà più difficili e impedirà che ve ne sia di nuovi, come lo ius soli. Ci aspettiamo anche un colpo di mano sulla gestazione per altri, in questo sostenuta anche da una parte del terzo polo, come Calenda. Cosa ne pensi?
Così rischiano di perdere consensi invece di conquistarne. C’è infatti, in particolare nel mondo femminile, una sensibilità al presidio dei diritti conquistati che è potentissima. Fossi in loro ci starei molto ma molto attento. Se sono intelligenti e vogliono comunque osare in quella direzione, lavoreranno più sui contributi a favore delle associazioni o delle organizzazioni che sostengono una cultura non di apertura o dichiaratamente ostile a quei diritti.

Per tornare alle libertà, come si può tenere insieme la libertà di poter usare il POS e quella di non volerlo utilizzarlo nel proprio locale? Sono discorsi borderline?

Non borderline, ma sono su due piani e pesi specifici diversi. C’è una differenza abissale tra le due posizioni. Secondo me non esiste che nel tuo negozio decidi di comportarti diversamente da quello che dicono le leggi. Tu consumatore puoi usare o non usare il POS, ma tu negoziante devi attenerti alle leggi. La normativa per dare libertà di non usare il POS sotto i 60€ non mi convince. Il vero motore del mondo è la libertà dell’individuo, l’inventiva, la capacità di esprimersi al meglio. Il POS non c’entra. Ci siamo dati delle regole e queste si seguono.

Vorremmo farti una domanda sui comportamenti elettorali. Credo ci sia ormai un gruppo di elettori totalmente svincolato dai legami classici tradizionali di appartenenza, d’identità, di vicinanza ma che fa ragionamenti semplici del tipo “non mi ha convinto l’ultimo che ho votato ne provo un altro”. Così è stato per Berlusconi, per Prodi, per il Movimento 5 Stelle, per Renzi. È così anche per Meloni?

Sì, e sono principalmente il frutto della grave crisi che abbiamo vissuto dal 2007, con la perdita di status di fette importante del ceto medio. Questo ha un po’ “liberalizzato” la scelta politica e quindi ha sciolto le briglie rispetto al fatto di stare nelle famiglie politiche originarie. C’è anche una profonda insoddisfazione sulla qualità della vita e sul fatto che non ti è più riconosciuto il diritto a migliorarti, si è ridotta la speranza. E poi ci sono anche i fenomeni culturali cui abbiamo accennato prima.

Riesci anche a quantificare questo fenomeno?

Ci si muove ora di qua ora di là, gli elettori che pensano “proviamone uno purché si ritorni a stare bene, purché si possano fare le vacanze, purché si possa affrontare un mutuo, ecc..”. Tanta gente che tra l’altro riconosco nei miei figli e nei i figli dei miei amici, quella fascia di età lì, che secondo me è stata più coinvolta in questi sbandamenti, in questi cambiamenti. È successo in tutto l’occidente dopo la globalizzazione, la perdita di reddito in queste fasce di popolazione, la perdita di speranza in un futuro migliore.

Avevamo chiesto a Magda (ndr, Magda Negri, intervista rintracciabile nel blog) un ricordo su Maroni, che lei aveva conosciuto come parlamentare. Ricordiamo Maroni, che era stato un comunista padano in gioventù, per parlare di chi ad un certo punto della vita si è spostato radicalmente di posizione. Anche a Torino ci sono state figure di questo genere, come ad esempio, Gipo Farassino, che dai festival dell’Unità è passato alla Lega. Non so se tu l’abbia conosciuto personalmente, ma che cosa ha fatto la Sinistra per convincere certe persone a cambiare schieramento?

Si sono chiusi nel centro storico. Non abbiamo più parlato con le persone delle periferie, ci siamo preoccupati soprattutto dei nostri valori e non dell’ordine pubblico sotto casa, non del potere d’acquisto, non del figlio che non trova lavoro. Basta salire sul tram 4 davanti al Comune di Torino e passare per corso Regina per essere circondato da un’umanità anche vitale e sanguigna ma che ha un sacco di problemi. Ecco di quelli lì non si sono più preoccupati. [NDR, In Brossa qui c’è un passaggio dal noi al loro]

Fermo restando che il problema dell’immigrazione sia di democrazia e diritti, è possibile che la Sinistra abbia commesso l’errore, che non ha fatto la Chiesa, di esaltare la bontà del multiculturalismo, accettando tutto e comunque, dove il migrante e la persona di colore sono sempre il bene e tutto il resto come il male?

Principalmente l’errore è stato lasciare che a farsi carico dei risvolti più preoccupanti dei cambiamenti fosse la parte più povera della popolazione. Vi faccio un esempio da casa popolare. Se è vero che la percentuale degli stranieri a Torino viaggia tra 12 e il 18%, e percentuali simili, seppure maggiori, le riscontriamo anche nelle case popolari; chi vive lì dentro però osserva invece il fenomeno emblematico, cioè che le nuove assegnazioni di case popolari sono uno a uno, una casa ad un italiano e una ad uno straniero. Quindi la percezione che tu hai, magari vecchietta di 84 anni, che non riesci più a scendere le scale e che hai paura che ti rubino la borsetta, è di una società che non ha più per te quell’attenzione che ti aspetti. Questo fenomeno qui è stato messo a carico delle periferie.
E questo la sinistra non l’ha capito. 

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