Il declino di Torino e dell’area metropolitana (1)

Intervista ad Aldo Viapiana

Aldo Viapiana ha iniziato ad occuparsi di marketing come dipendente nel campo dell’editoria, fino ad essere responsabile marketing di una linea di pubblicazioni. Nel 1990 apre la propria società di analisi e consulenza. Tra le sue varie esperienze, c’è quella di Adjunct Professor di Economia presso il Dipartimento Management dell’Università di Torino. È autore di sette libri di marketing e di management e di articoli su riviste specializzate, tra cui Harvard Business Review. Vive a Torino. 

Aldo, il nostro blog è interessato, tra le varie tematiche, a capire le ragioni del declino di Torino. È recentemente uscita una ricerca che sicuramente hai letto (vedi nostro articolo). Cosa ne pensi?
Faccio una premessa: ho avuto l’occasione di occuparmi di ricerche in campi differenti e ho avuto occasione di conoscere e di imparare da esperti del mondo della ricerca in Italia, tra cui Giampaolo Fabris, che è mancato già da qualche anno, che si occupava di “indagini di scenario”. Se voi andate a vedere, la mappa che c’è nella ricerca (ndr la ricerca è stata curata dalla società di consulenza KKIENN) è una derivazione di questa metodologia. Si stabiliscono una serie di fenomeni da analizzare, si costruiscono domande e scale di valore, secondo la metodologia avviata da Robert Merton e Paul Lazarsfeld fondatori della scuola sociologica americana negli anni ’50. Per farvi un esempio classico, per misurare il grado di razzismo nella società le domande utilizzate da Theodor Adorno erano tipo: faresti un viaggio, mangeresti o sposeresti tua figlia con un “negro”? L’ultima domanda è messa strategicamente in quella posizione, perché uno può dire sì ci mangio, ci faccio un viaggio, ci lavoro, però mia figlia non la sposo. Ho fatto questo esempio, perché questa era proprio la scala che si usava negli anni 50 negli Stati Uniti per misurare il grado di razzismo. Questo tipo di scale oppure altre che, parafrasando Gaber, potrebbero definire il proprio concetto di libertà  (“quando mi sento libero? quando sto sopra un albero mi sento libero, quando dico quello che penso mi sento libero, quando partecipo con altri a delle decisioni comuni, ecc.”) sono domande per misurare i cosiddetti atteggiamenti nei confronti di situazioni e posizioni. Questo è quello che ti permette di dire se quella persona è un tradizionalista o un innovatore, se è aperta alla novità o è un conservatore, oppure se è preferisce fare le cose da solo o farle con gli altri. Ma le variabili possono essere ancora molte altre, razionalità contro superstizione, per esempio, oppure altre ancora, un meccanismo complesso in termini di ricerca, perché prevede anche centinaia domande e ti permette di costruire delle mappe. Alla fine, tu individui, tra tutti i fenomeni che hai misurato, due grandi assi che frequentemente (ma non sempre) sono: io e gli altri, il vecchio e il nuovo
Quello che si ottiene è il risultato di un’analisi. Tu sottoponi all’intervistato una serie di domande, anche una batteria di 200 domande, classifichi ogni intervistato in funzione delle risposte che ti ha dato e infine lo vai a classificare in uno spazio a N dimensioni. Dopodiché, per sostenere un’analisi reale, devi appiattire queste dimensioni su due. Le due dimensioni su cui normalmente si lavora sono quelle citate sopra. Il risultato finale sono quattro quadranti in cui c’è Nuovo e Altri, Nuovo e Me stesso, Vecchio e Altri, Vecchio e Me stesso. Sono delle semplificazioni, che ti permettono di comprendere risultati che diversamente non capiresti, perché il nostro cervello non riesce a concepire uno spazio ad N dimensioni (ma il calcolatore si). Tutte le analisi sono delle semplificazioni. Tu vai a studiare la complessità ma poi devi in qualche modo semplificarla per comprendere che cosa sta succedendo. 

Abbiamo intuito che per te c’è una debolezza in questa ricerca o no?
Non c’è una debolezza metodologica, tutt’altro. Tutte le ricerche dicono delle cose interessanti, ma spesso si limitano ad offrire dei dati e tocca ad altri decidere cosa fare, ma se la ricerca rimane fine a sé stessa non serve a niente.

C’è una fase operativa, quindi? 
Certo, se qualcuno se la prende in carico. Tu puoi fare una bellissima ricerca, la migliore del mondo, ma finalizzata a fare che? Tu fai una ricerca sulla pena di morte per sapere se gli italiani la vogliono o no, se la ritengono una cosa barbara oppure una cosa civile. Dopodiché, cosa te ne fai? Se esce come risultato dominante che gli italiani vogliono la pena di morte, dopo cosa fai? Quindi? Il quindi è la battaglia per fare in modo che le opinioni cambino.A partire dagli anni ‘90 ho cominciato a fare la cosa che sentivo più mia: le ricerche di mercato. Vedevo che c’era in Italia uno spazio per fare questo. Le ricerche all’epoca si facevano sui prodotti di consumo come i formaggini, lo yogurt, il detersivo. Ma tutta l’area dei beni industriali, delle macchine e degli impianti non era coperta. Io mi sono messo in quel settore e ho costruito praticamente una mia posizione. Ho imparato come si facevano le ricerche industriali ma sempre più spesso i miei clienti mi dicevano “Va bene Viapiana, lei mi ha presentato dei dati molto interessanti, ma adesso che facciamo? Lei mi ha fatto lo scenario, mi ha raccontato cosa fanno i miei concorrenti, i miei clienti, i miei distributori, i miei venditori e adesso lei cosa farebbe?” Era il loro quindi. A quel punto partiva la consulenza. Mi commissionavano la ricerca, ma in realtà quello che volevano era “Dimmi cosa devo fare”, cioè la ricerca era lo strumento per fare dei ragionamenti su quello che c’era da fare 

Nella tua esperienza, gli imprenditori italiani sviluppano competenze in ricerca o in innovazione? 
Sì e no, perché io ovviamente lavoravo con aziende innovative, o almeno attente al proprio mercato. Se io dovessi giudicare quelle con le quali ho lavorato, direi che le aziende italiane sono fantastiche perché sono innovative, diversamente non avrei lavorato. Ma anche questo non è del tutto vero perché anche quelli che poi mi chiedevano soluzioni pratiche non sempre le attuavano. 

È un po’ come i nostri politici cui facciamo la domanda “Cosa ne fai adesso di questa ricerca che ci dici di aver letto?” 
Temo di conoscere la risposta. Tutti ti diranno che faranno delle robe meravigliose.

Qual è il limite culturale degli imprenditori italiani? 
Una precisazione. L’Italia ha una diffusissima piccola e media impresa. Caratteristica italiana, ma non esclusiva, perché anche in Germania è così, anche negli Stati Uniti. Quando ero in Seat In Italia c’erano qualcosa come 1.200.000 utenze affari, cioè c’erano 1.200.000 potenziali clienti di Pagine Gialle, dal piccolo micro-negozio alla grande azienda. 1.200.000 unità, compresi i singoli liberi professionisti. Sono tanti, ma le aziende che veramente contano in Italia sono meno di 1.000 e non è detto che siano tutte innovatrici. O meglio, i padri, quelli che dal 26 aprile 1945 hanno deciso di ricostruire, quelli sono stati degli innovatori perché hanno rischiato del proprio, si sono fatti prestare i soldi, hanno messo in piedi chi la fabbrica di mattoni chi altro. Questi sono i padri che avevano venti, trent’anni nel ’45, che nel 1980 ne avevano 60 e che quando sono arrivato io nel 1990 ne avevano 70; erano quelli che continuavano a essere nell’azienda e continuavano a farla andare avanti, con idee nuove tutti i giorni, giuste o sbagliate che fossero. Poi c’erano i figli, che quando mi sono affacciato su questo settore, avevano tra i 40 e i 50 anni. Molti di loro hanno fatto dei disastri, mandando a picco le aziende dei padri. Ho presente un’azienda di Pesaro, due soci che nel dopoguerra facevano mattoni, che nel dopoguerra significava avere ricchezza sicura. I due figli quarantenni dei rispettivi soci avevano deciso di fare i Raul Gardini della situazione e si lanciavano in investimenti folli. Una fabbrica di mattoni che ad un certo punto, su decisione di un figlio, si mette a fare le mozzarelle e l’altro in risposta si mette a fabbricare box doccia. Con un direttore generale che cerca di tamponare le falle, correndo dietro a questi due disgraziati. Che cosa significa questo? Che nell’industria italiana c’è sicuramente un problema di ricambio generazionale, ma che anche per questo occorre una crescita di cultura manageriale, l’azienda famigliare è stata la chiave del successo italiano nei ‘50 e ‘60 (insieme ai salari bassi e alla svalutazione periodica della lira) ma oggi quel modello è ormai fuori dal tempo. La pandemia prima e la guerra oggi ci hanno dimostrato che il mondo è piccolo, le sfide non del futuro ma drammaticamente qui e ora sono l’energia, l’ambiente, la riduzione delle disuguaglianze. Ciò che conta è la capacità di incorporare innovazione e crescere in tecnologie anche per delineare traiettorie di sviluppo sostenibile. Non ci sono molte alternative, o si fa così o si va anche fuori dai mercati, nel migliore dei casi si rimane marginali. E tutto ciò richiede capacità di visione e di prospettiva, e dunque anche un’evoluzione di come si fa impresa.

Tu hai conosciuto il mercato americano: in Italia queste cose sono possibili perché il mercato è più protetto e non c’è quella selezione feroce che c’è negli Stati Uniti?
In realtà anche il mercato americano è protetto; lo è per le grandi aziende. Non che in Italia non sia così perché la protezione che ha avuto Fiat per cento anni è risaputa. Ma ti faccio l’esempio di DELL, che a un certo punto affermava di fare il computer come voleva il cliente; questa è stata la narrazione del successo di questa azienda, ma in realtà DELL è il principale fornitore delle agenzie governative, ha delle commesse che gli arrivano dal governo degli Stati Uniti, dalla difesa, dalle varie agenzie. L’80% del fatturato lo fa col governo e poi può permettersi di raccontare in giro che ha avuto successo perché consente al cliente finale di decidere la propria configurazione. Tutte frottole, i soldi li fa col governo che gli dà laute commesse. Se tu vai a vedere tutta l’apparato industriale americano, quello importante, quello pesante dall’aerospazio, ovviamente a tutto il settore delle armi, ma anche i servizi, anche IBM che non fa più computer ma servizi, il grosso del fatturato lo fanno con il governo. Il peso del settore pubblico negli Stati Uniti è rilevantissimo. Tu pensa soltanto a Ross Perot, quello che si era presentato candidato presidente, lavorava col governo e le sue aziende lavoravano perché c’erano le commesse governative. È chiaro che la piccola impresa del Kansas, che fa zappe o componenti per grandi aziende, le commesse governative non ce l’ha. Sono riservate solo alle grandi imprese. In Italia invece più o meno “tutti teniamo famiglia”; tutti hanno il loro piccolo privilegio o credono di averlo, oppure un diritto diventa un privilegio. Anche in Francia lo Stato ha un peso enorme, maggiore che in Italia, ma la Francia ha una politica industriale che noi non abbiamo. Se i francesi dicono “puntiamo su quel settore”, i soldi vengono messi su quel settore. In Francia, negli anni ‘80, avevano fatto sparire gli elenchi telefonici per introdurre il minitel in ogni famiglia. Hanno chiuso forzatamente la distribuzione cartacea, hanno fatto lavorare l’azienda di stato Alcatel e ogni famiglia aveva un terminale. La politica era: informatizzare le famiglie francesi tramite il minitel. Anche per ragioni storiche c’è una forte impronta centralizzata, indipendentemente da chi ci sia al governo. Difficile dire se sia una cultura di buon (o cattivo) governo, ma è una cultura di governo, che ha tuttavia risvolti negativi. Ricordo di una vacanza in Bretagna dove doveva nascere un parco nazionale, e il prefetto non si faceva scrupolo ad abbattere alberghi anche storici per portare avanti il proprio programma.
Si può dire che i francesi non vadano molto per il sottile. Mentre da noi tutto è più sfumato, forse per una cultura clericale millenaria.

Focalizziamoci sulla ricerca su Torino e verifichiamo se nella ricerca ci sono le cose che hai messo sul piatto finoraQuando abbiamo visto la ricerca ci siamo senti portatori di un bias di conferma, come a dire “lo sapevamo che era così”. Ma rileggendola ci siamo chiesti se i risultati sono un po’ forzati, orientati verso una precisa narrazione.
Questo vale sempre. O ti limiti a dire questi sono i numeri e lì ti fermi oppure, se vuoi dare un’interpretazione, prevale la soggettività. Anch’io presentavo i numeri e poi dicevo a quattr’occhi bisogna fare questo o quello, ma nella presentazione quello che si doveva fare non era presente. La ricerca dà delle conferme, delle idee. Do per scontato che sia stata fatta bene e fatta per davvero, mentre tante volte le ricerche sono finte.

Da questi dati secondo te, cosa dovrebbe fare Torino per modificare la tendenza al declino.
Secondo me il declino di Torino arriva da lontano e non è un problema solo torinese. La realtà torinese è storicamente differente, ma il torinese non è così differente da altri. Noi abbiamo avuto un problema di mono produzione FIAT e le imprese che non lavoravano nel settore automotive non avevano spazio. Non potevano averlo perché si faceva solo quello. 
Il monopolio FIAT, inteso come unica cultura produttiva, è stato un problema di lunga durata, esattamente come Detroit. Poi quando Fiat ha deciso che Torino non era più centrale abbiamo avuto la narrazione della Torino olimpica e turistica, che in realtà ha portato colossali sprechi di denaro pubblico per infrastrutture che oggi marciscono, aggiungendo l’illusione che potessimo vivere di turismo. Non è così: il turismo produce lavoro precario e non è un settore innovativo, è fortemente stagionale e ha costi fissi enormi. Un po’ come il cinema che vende la maggior parte dei biglietti il sabato e la domenica, ma i costi dei locali sono pagati per tutti i giorni. Se sono un’azienda che vende bulloni, ciò che non vendo oggi lo posso vendere domani. Nel turismo quello che non vendo oggi lo perdo per sempre e devo risparmiare sui costi fissi e principalmente sul personale che non ho motivazione a formare.

Non a caso i locali del cibo di Torino sono pieni di cartelli del tipo “Ci scusiamo per il disagio, ma manca il personale”, mentre le aziende “produttive”, come i caseifici della cintura, hanno tantissima manodopera non italiana, che difficilmente possono permettersi di sottopagare e non tenere in regola. Questo significa che ci siamo illusi con il turismo e dobbiamo rifocalizzarci su altre attività?
Ai miei studenti dicevo che tutte le mattine un nuovo amministratore locale viene folgorato dall’idea che bisogna puntare sul turismo e tutti i pomeriggi lo stesso amministratore afferma che la miniera d’oro sono i beni culturali. 
Stupidaggini banali e colossali! Innanzitutto, nel turismo non ci sono giorni medi, ma stagionalità con numeri molto differenti. Parliamo di un caso vero: si era deciso che per far aumentare il pubblico nei musei il biglietto doveva essere gratuito la domenica. Quindi alla domenica si aveva grande affluenza, ma con personale ridotto, perché la domenica il personale costa di più. Quindi non si è risolto il problema strutturale, che è quello della scarsa presenza durante la settimana. Ai Musei Reali, al MAO, durante la settimana non c’è nessuno o quasi. Il Museo Egizio è un caso a parte. La Torino turistica è una balla. Hai creato lavoro precario, non ha stabilizzato alcunché, non hai fatto innovazione.

Questo problema viene evidenziato dalla ricerca?
No, questo non viene fuori. Torino è in declino per via dell’onda lunga della monocultura industriale. Nel momento in cui la famiglia Agnelli ha iniziato ad abbandonare la città e la produzione, Torino si è guardata intorno, ha cercato di imitare, ad esempio, Edimburgo, ma senza concreti risultati. Un fatto è sicuro: se tenti strade produttive (aerospazio, informatica, nuove tecnologie) può andarti bene o male. Ma se punti tutto sul turismo, il risultato non può che essere negativo, perché non innovi e soprattutto non crei occupazione stabile. Vedi ad esempio il caso degli alberghi nati per le Olimpiadi e che sono in difficoltà o chiudono (Golden Palace). Non siamo Venezia o Firenze, che comunque è anche industria. Non siamo Roma, che tra l’altro non è solo turismo, ma anche l’indotto della politica e dell’industria. Bologna non è solo università ma anche industria. Per quanto riguarda Milano, io sarei preoccupato ad occuparmi solo di moda, settore sul quale stanno puntando tantissimo. Ma Milano non è solo questo, è servizi.

È possibile che per il turismo qualcosa sia stato fatto, mentre in altri settori meno? Penso alla possibilità di aprire dehors quasi senza vincoli. 
Mi ripeto. Manca una politica industriale e manca una visione del futuro. La domanda da fare ad un aspirante sindaco è: “Come vedi questa città fra dieci anni?”. Poi per carità, un po’ di turismo va anche bene, soprattutto nella sua componente culturale, ma da solo non è assolutamente sufficiente, anzi crea scompensi.

Cosa ne pensi della incapacità di ibridare i saperi? Cosa vuol dire in pratica?
Quello di cui si diceva, la capacità di stanare gli imprenditori. La politica questa cosa non la sa fare e neppure ne ha voglia. Voglio raccontarvi di Firenze. Mi hanno recentemente chiesto di far parte del comitato tecnico scientifico per la reindustrializzazione della GKN, una società che faceva componentistica per Stellantis. Due anni fa l’hanno chiusa, trasferendo la produzione fuori dall’Italia e licenziando con una mail i propri dipendenti. Un imprenditore si era proposto di prendere in carico l’azienda, promettendo un piano industriale in un anno. Dopo un anno, non presenta nulla ma chiede soldi. Morale, si mette in piedi questo comitato con l’appoggio anche delle comunità accademiche, una start up propone una riconversione produttiva sul fotovoltaico con tecnologia europea e non cinese. Per inciso, la filiera italiana del fotovoltaico è stata distrutta perché, in assenza di un piano industriale di lungo periodo, togliendo gli incentivi messi 15 anni fa, tutto è caduto. Noi troviamo questa start up e si chiede l’intervento della Regione, perché l’unica alternativa era la chiusura della fabbrica e il licenziamento di oltre 300 persone. I tempi per l’avvio di questo progetto sono lunghissimi, dai vari enti ed agenzie pubbliche, anche nazionali, che dovrebbero essere motore della ripartenza ci sono tempi biblici, e intanto lo stabilimento si degrada, i lavoratori sono pagati per non fare nulla, le opportunità sono lì, ad aspettare i tempi della politica, nonostante un business plan che prevede di entrare in utile in tre anni. Siamo a Firenze, ma lo stesso sarebbe in altre città. Non si chiedono interventi a fondo perduto, ma prestiti da restituire e un piano industriale.
Veniamo a Torino. Qui esiste una struttura per l’attrazione degli investimenti dall’estero che è il Centro Estero per l’Internazionalizzazione, che sarebbe anche una agenzia utile, se funzionasse. L’idea iniziale era quella di mettere insieme in un’unica organizzazione tutti i vari enti che si occupavano di attrazione di investimenti sul territorio per farne un punto di forza. Ci sono voluti tre anni, perché ogni ente originario aveva fatto resistenza, ma una volta creata questa agenzia unica ha tentato di funzionare, dandosi una strategia, degli obiettivi, un piano di attività. Poi è stata condizionata e infine schiantata dalle nomine sempre più politiche e sempre meno competenti. Alla fine è diventata un ennesimo carrozzone, senza alcuna utilità concreta e ancora meno risultati.

Hai parlato di nomine politiche, nella ricerca più volte si dice si privilegiano i legami forti, le conoscenze giuste, più che il merito. Confermi che è anche la tua percezione? 
Questo per me è più una conseguenza del declino che una causa. Un regime degradato e corrotto ce l’hai nel momento in cui l’economia è stagnante, anche come idee. Per decenni la città ha vissuto in funzione della propria monocultura. E quando è andata in crisi non si è saputo, o voluto, traghettarla verso nuove prospettive.

Puoi farci un esempio di cose positive per Torino, un’esperienza o un settore?
Io ho lavorato tanto per aziende non torinesi. È una risposta?

È un epitaffioIl settore dei servizi è così disastrato?
Alcune aziende ci sono, mi viene in mente Reply, ad esempio.
Nel mio piccolo avevo aperto una società, ma i miei clienti erano altrove, a Milano e in Lombardia, in Emilia, nel Centro Italia, anche al Sud. In Piemonte pochissimi e solo due importanti, uno dei quali una multinazionale francese ad Alessandria e l’altro un imprenditore cuneese che lavorava principalmente all’estero.

Se noi volessimo capirne di più da chi dobbiamo andare?
Alcune analisi e considerazioni interessanti sono nel saggio Chi ha fermato Torino [Bagnasco Berta Picchierri – Einaudi 2020]: si possono trovare alcune risposte, con un linguaggio simpatico e istruttivo. Cominciate da qui.
Consigli finali, per punti di vista ed esperienze dal mondo leggete la rivista Marketing Exchanges

3 Replies to “Il declino di Torino e dell’area metropolitana (1)”

  1. Sono a contatto da alcuni anni con due iniziative “di sistema”.

    Una è “Torino Social innovation”, una piattaforma alimentata dalle iniziative diverse (Fondazione San Paolo, Politecnico di Milano (!), Fondazione Brodolini, Camera di Commercio e iniziative private, anche piccolissime). L’idea è quella di costituire un ecosistema capace di attrarre su Torino (meglio di enti pubblici e di imprese private singole) la grande finanza di impatto sociale, che all’estero ha fama di orientare parti crescenti di attività dei grandi fondi di investimento (citato spesso: Black Rock).

    Un’altra, più recente, anzi in formazione, è la Butterfly Area, che è una idea di dipartimenti accademici delle facoltà scientifice dell’università e di parte del Politecnico (questo, di Torino). Qui l’ottica è favorire l’interscambio fra la Ricerca Applicata e imprese (non necessariamente start up) polarizzate in una zona anche geograficamente coese.

    Chissà se c’è la possibilità di sapere cosa ne pensa il Prof. Viapiana.

    1. Buongiorno. Tutte le iniziative sono da apprezzare, siano esse nel campo dell’innovazione sociale sia delle aree attrezzate e di interscambio o quant’altro. Quello che cercavo di dire nell’intervista è che non vedo una idea di futuro sul destino di questa città. Molte iniziative sono presenti, e le due che lei cita ne sono un esempio, ma da parte di chi dovrebbe governare l’area metropolitana (e chi sarebbe? bella domanda…) non vedo nè una visione di lungo periodo nè tantomeno una regia. Questa assenza non è solo torinese, ma qui si avverte maggiormente. Con cordialità, Aldo Viapiana

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