Il declino di Torino e dell’area metropolitana (3)

Intervista a Dario Licari

Numinato Dario Licari è stato esponente del PD torinese, Vicepresidente della Circoscrizione 6, ora attratto dall’esperienza del Terzo Polo.
Attivo sul territorio locale, si è occupato molto di sociale, sanità, viabilità e trasporti.



Grazie Dario per questo incontro; siamo soliti iniziare con una domanda su un tema notizia di attualità: da siciliano, come valuti la cattura del boss Messina, seppur aspettata da decenni? 

Sicuramente è un momento importante per la Sicilia e per estensione per tutta l’Italia. 
La storia della mia famiglia è in parte legata al giudice Paolo Borsellino, che proprio nel trapanese mosse i primi passi; quindi, non posso che accogliere come positivo l’arresto di Matteo Messina Denaro. È una vittoria per lo Stato e in parte si rende giustizia ai tanti morti di questi trent’anni, sebbene le modalità e le tempistiche lascino pensare ad una storia diversa da quella raccontata dagli organi di informazione, che non cambia il finale certo, ma insinua in molti anche la possibilità di una trattativa con lo Stato, riaprendo un dibattito mai affrontato in maniera precipua, ma di questo se ne occuperanno i magistrati nelle sedi opportune.

Il nostro blog ha come temi portanti Diritti, Libertà, Democrazia. Puoi declinarli secondo la tua personale visione?

Nei diritti e nella loro tutela ci ritroviamo le fondamenta della casa in cui vorremmo abitare, le sfide che vale la pena di combattere, le vette che vale la pena di scalare, le ali su cui volare.  A diritti affianco la parola giustizia, visto che entrambe le espressioni sono riconducibili a ciò che è giusto, nella solida certezza che solo tutelando e rivendicando i diritti si possa giungere ad una giustizia equa ed egalitaria. 
La libertà rappresenta invece una trama, una massa più complessa da dipanare, che lega pensiero ed azione, interiorità e mondo esterno. La parola greca libertà, eleutheria, ci dice che è libero chi può agire secondo il proprio desiderio, interesse o volontà e che porta alla propria autodeterminazione. Il più delle volte decliniamo questo tema come se dovessimo essere liberi da qualcosa o qualcuno, invece di poter essere liberi di.
Per me la democrazia rappresenta l’alfabeto imprescindibile che un popolo deve possedere per potersi esprimere, confrontare e trovare quel senso di comunità che in questo momento storico si sta forse perdendo, dietro personalismi, populismi e sovranismi.

Tu hai una storia particolare, inizi come infermiere, hai sul tuo curriculum percorsi universitari differenziati, ma hai scelto di occuparti di giovani come educatore salesiano. Possiamo dire che nella vita hai trovato il tuo zenit?

Secondo un famoso aforisma se trovi il lavoro che ti piace ti sembrerà di non lavorare neppure un giorno della tua vita. 
In realtà, nel mio caso è stata una scelta fin dall’inizio. Avevo circa trent’anni, ma già lavoravo da dieci come accompagnatore per il comune di Torino, quando mi telefonano per chiedermi se volessi andare a lavorare per i Salesiani. In quel momento ero in partenza per le isole Azzorre, proprio per accompagnare un ragazzo disabile. Una volta rientrato, dopo due giorni firmai il contratto e iniziai un’avventura che dura da vent’anni. 
Per resistere tanti anni, in un ambiente di periferia caratterizzato da multiculturalismo e diversità, devi essere flessibile. Sono contento, ma sono anche in quella stagione della vita dove, come ha detto il Papa, se pensi di aver raggiunto l’obiettivo devi avere anche il coraggio di farti da parte e far crescere altri. E ho un altro sogno da realizzare: ho compreso che il vulnus educativo è soprattutto nella scuola media; noi abbiamo un forte problema di dispersione scolastica, un abbandono al di là del problema migranti inseriti a scuola. C’è anche qui, per usare la metafora dei talenti, la necessità di far valorizzare quelli propri di ognuno per farli rimanere all’interno del sistema scolastico. Prima o poi potrei decidere di insegnare proprio nelle scuole medie.

Quali pericoli possono incorrere le nuove generazioni, quale futuro si devono aspettare? 

Oggi il vero problema per me è la cosiddetta generazione NEET, ossia coloro che non studiano, non cercano un lavoro o una maniera di accrescere la propria formazione personale. 
In un mondo travolto anche dalla pandemia questo aspetto sta generando comportamenti devianti, violenza, spaccio, prostituzione o al contrario in situazioni di autolesionismo e in casi estremi al cosiddetto fenomeno degli hikikomori, che caratterizza coloro che si mettono in disparte. 
Le nuove generazioni si trovano risucchiate in un mondo virtuale e digitale che il filosofo Luciano Floridi ha abilmente rappresentato con l’espressione On-life, ovvero tutto quanto accade e ciò che si fa mentre la vita scorre, restando collegati a dispositivi interattivi. 

Entrando nel merito del tuo lavoro, guardando i tuoi ragazzi cosa intuisci del declino di Torino? Lavorando con quelli che brutalmente chiamiamo i tuoi clienti, attraverso di loro intuisci che ci sia qualcosa che non va in questa città?

La piazza del mercato – piazza Cerignola già piazza Foroni – è il cuore di Barriera di Milano. Negli anni ’60 tutte le domeniche arrivava proprio qui un pullman direttamente dalla Puglia.
In questi luoghi lo scrittore Christian Frascella ha ambientato i romanzi del detective politicamente scorretto Contrera, ritroviamo i protagonisti di Quella metà di noi di Paola Cereda, ripercorre la memoria il libro corale di racconti Barriera stories promosso dalla libreria Il Ponte sulla Dora.

Barriera di Milano, il quartiere dove lavoro da anni è un laboratorio interessante. 
I miei genitori fanno parte della generazione di immigrati degli anni ’60, quella dei cartelli “Non si affitta a meridionali”. Siamo i figli di chi ha patito le difficoltà dell’integrazione, ma in un periodo storico di boom economico e di solidarietà diffusa. 
Oggi, i nuovi immigrati appartengono ad un sud ancora più a sud di quello dei nostri padri. Prima sono arrivati gli albanesi, poi i marocchini, i rumeni, i cinesi e così via. Gli immigrati di 30 40 50 anni fa, forse per un principio di compensazione del torto subito, sono più restii nell’accoglienza. La Torino del boom aveva oltre un milione di abitanti, scesi oggi a 850.000: la città si sta svuotando e manca il lavoro.
C’è meno solidarietà e più paura per tutto ciò che è altro. Oggi in Barriera di Milano se non ci fossero i figli di stranieri le nostre scuole sarebbero vuote; la Pestalozzi, storica scuola del quartiere, sarebbe già chiusa da un pezzo. Questo indotto, non so come chiamarlo, cambia gli equilibri ma garantisce la sopravvivenza della nostra città.
Molti hanno cercato di spostare l’attenzione sulla questione religiosa. Vi dimostro che è falso con un esempio: vent’anni fa i nostri primi ragazzi arabi si tappavano le orecchie quando facevamo un momento di preghiera, perché i genitori gli dicevano di non ascoltarle; al pari di tanti cattolici, oggi le loro pratiche religiose sono sfumate, non sentono così forte l’appartenenza alla loro cultura di origine se non in rari momenti, ma non sono completamente partecipi della cultura dove sono cresciuti. Questo offre loro una facile scappatoia dalle problematiche e crescono senza una precisa identità e questo si riflette sui nostri percorsi di formazione e di accoglienza. Manca un punto di contatto condiviso: in oratorio è più semplice soprattutto attraverso il gioco, mentre nella scuola diventa tutto più complicato e molti insegnanti sono in difficoltà a causa di scarse politiche di formazione ed investimenti nella Scuola, con schemi e programmi scolastici che oramai non funzionano.

Quanti ragazzi di origine straniera frequentano l’Oratorio?  

L’oratorio Michele Rua è oggi una struttura polifunzionale, che comprende anche scuole e un frequentato cinema teatro.

Circa il 70% di chi quotidianamente frequenta l’oratorio è di origine straniera, anche se la maggior parte di loro oramai sono linguisticamente e culturalmente italiani a tutti gli effetti.

Si può dire che mentre noi percepiamo il declino di Torino, per questo 70% il disorientamento è più generazionale o valoriale? 

È così. In questa città post-industriale bisogna prima di tutto parlare di declino valoriale. 
Uno sale sul pullman e non timbra perché tutti fanno così; tutti trovano la scusa per non comportarsi come in realtà bisognerebbe comportarsi. I ragazzi non percepiscono questi valori perché è come se non avessero neanche esauditi alcuni dei loro bisogni primari. 
Un cospicuo numero di ragazzi che frequentano il mio oratorio non sono cattolici, ma i loro genitori li mandano ben volentieri da noi piuttosto che lasciarli in giro ai giardini o in certi luoghi pericolosi di Barriera. Questo fa sì che il declino non venga percepito, se non più avanti, quando si accorgono che mancano le opportunità, perché il mondo del lavoro non te le fornisce. La maggior parte dei ragazzi stranieri che seguo sono scolarizzati e vanno avanti nel percorso: adesso alcuni sono al liceo, altri all’aeronautico, altri ancora in istituti tecnici.
Leggiamo sui giornali che chi ruba ha un nome straniero, ma io racconto sempre questo paradosso: è vero che in Barriera di Milano ci sono gli spacciatori come per esempio lungo corso Vercelli, ma i compratori sono quasi tutti italiani. Non ho mai visto un senegalese fatto di cocaina o una marocchina che si prostituisce per avere una dose. 

Il tuo oratorio si può definire una sorta di rifugio?

La parola rifugio ti fa pensare istintivamente ad un posto dove vai a nasconderti. In realtà la parola che io sento più vicina è quella di comunità. Noi adesso stiamo lavorando molto sul concetto di comunità accogliente, quasi una seconda casa che diventa per molti anche una prima casa. 
Nella mia accezione l’oratorio è casa perché si connota con le figure che ci sono all’interno di una struttura che è familiare. Adesso la prima cosa che diamo è la tesserina dell’oratorio perché genera appartenenza. L’oratorio è il tuo posto del cuore e allora tu hai la tessera. Quindi casa più che rifugio e, se vogliamo estendere il concetto, luogo dove possa trovare me stesso per rifugiarmi quando la giornata a scuola è andata male e dove c’è qualcuno che mi ascolti. 

È interessante il tuo binocolo sulla realtà di Barriera, che mi sembra faccia parte del declino della nostra città. 

Chi vive in Barriera o la ama o vuole abbandonarla. Secondo me, però, la cosa che dà più l’esempio del declino non è quello di cui abbiamo parlato, ma sono cose più piccole, come per esempio il problema legato alle deiezioni canine: vi farà sorridere, ma è una tema che mi sta fortemente a cuore. 
Comprendo le persone che hanno un animale, le loro necessità emotive o affettive, però quello delle deiezioni ricade nelle loro responsabilità. Nonostante gli spazi verdi abbiamo aree, strade, accessi scolastici invasi. A volte bisogna camminare in mezzo alla strada perché, specialmente la sera, non vedi quello che pesti sul marciapiede. 
Si criticano spesso Napoli e Roma, ma per immondizia e sporcizia animale la nostra Barriera non è da meno. Questo è un segno del declino, una cartina di tornasole. È il buon senso comune, la civile convivenza che spesso viene a mancare.
Sporcizia e crisi valoriale sono un problema culturale e sono segni del declino ancor più evidenti di quanto non lo siano le aree dismesse e abbandonate della città. 
In questo rientra l’incuria e il vandalismo verso le aree comuni.
Spesso si recupera un luogo, rendendolo carino, come sta accadendo per alcune aree giochi per i bimbi più piccoli. Nel giro di poco tempo ignoti decidono di danneggiare o sfasciare altalene, castelli, scivoli, dondoli: tutte attrezzature care. Questo è il vero segno del declino: la gente che sfascia le panchine, che lascia rifiuti in giro, che non raccoglie la cacca dei propri animali. 

Conosciamo il tuo impegno politico sui trasporti pubblici e sulla connessione periferia-città, in particolare quelli che collegano l’area Nord Est, quella San Mauro Bertolla Barca Torino Nord.
Nella progettazione della Metro sembra sia saltato lo sfiocco fino a Pescarito, cosa puoi dirci di più?

La Metro 2 a Pescarito è stata sicuramente una delle azioni politiche che mi ha visto metterci la faccia, sfidando anche l’idea, per me ambientalmente incongruente, di far partire il primo lotto di lavori dal territorio infracittadino di Rebaudengo, senza tenere conto che importanti progettisti mondiali hanno più volte suggerito di attestare i capolinea delle metropolitane all’esterno della cinta daziara, così da impedire al traffico veicolare di entrare in cittàPer questo la soluzione di Pescarito, con la possibilità di riqualificare una zona industriale in parte abbandonata, sarebbe stata per me la migliore dal punto di vista ambientale e funzionale. 
Purtroppo nel primo lotto finanziato e appaltabile manca l’inserimento di Pescarito e questo allontana quasi definitivamente la possibilità di vedere arrivare la metropolitana fino a San Mauro/Settimo in tempi brevi o forse, dovrebbero avere il coraggio di dire, per sempre.

Stupisce vedere rappresentanti politici del recente passato torinese e sanmaurese, stracciarsi oggi le vesti, quando in precedenza hanno sottovalutato o ignorato documenti, mozioni, istanze, inviti ad intraprendere una battaglia comune e bipartisan per far sì che un’opera cosi strategica potesse attestarsi in tempi ragionevoli sui territori del nord est di Torino.

Oggi per me la battaglia principale è diventata quella del ripristino della linea 57 nel tratto Bertolla – Oltrepò – Sambuy San Mauro, ovvero la storica cerniera tra la collina e il centro di Torino, il mezzo utile per raggiungere senza cambi l’Ospedale San Giovanni Bosco, i mercati di piazza Foroni e Porta Palazzo, l’Asl di lungo Dora Savona, la Stazione FS di Porta Susa.
Il recente prolungamento della linea 8 a sud fa pensare che GTT possa ripristinare il capolinea 8 a Piazza Sofia. Riottenere quindi la linea 57, così com’era fino ad inizio 2021, sarebbe auspicabile ed essenziale. 
Oggi il 57 è un bus che non risponde alle necessità della cittadinanza. 

Quello del 57 sembra un tuo “chiodo fisso”, ma così non allungheresti una linea che in passato era stata criticata proprio per il suo percorso?

È più lungo come percorso, ma permette agli utenti di San Mauro e Bertolla di arrivare con un solo mezzo nei punti strategici di cui si parlava prima, che per un anziano, ma anche per molti pendolari, è importante raggiungere velocemente e in sicurezza. 

Oggi il 57 è instradato con passaggi cadenzati con la linea 27, con cui condivide il capolinea in zona Barca. Ha una ridotta capienza essendo in funzione il veicolo singolo e non quello snodato, che garantiva maggior carico e vivibilità. I viaggi si sono trasformati in un’esperienza più simile al trasporto del bestiame che a quello delle persone, alimentando la mancata timbratura.
Noi abbiamo bisogno di una seconda linea. L’8 io lo uso: non funziona male, migliorabile perché, per diverse ragioni, a volte ne hai tre di fila e poi non ne passa uno per molti minuti; serve Bertolla e San Mauro fino a piazza Mochino. 
Tutti quelli che sono dall’altra parte del ponte [ndr San Mauro è divisa dal Po in una parte est ed una ovest, collegate da due ponti: uno pedonale e uno stradale] sono esclusi, come sono esclusi gli abitanti della zona PraGranda. Quando criticavo la posizione della biblioteca di San Mauro, mettevo in conto che ci arrivava il 57, che ora non passa più. 
Manca una visione strategica. Io sono uscito dal PD di San Mauro anche per questa ragione: mancanza di iniziative sulla metro e sui trasporti. Come è possibile progettare una metro solo fino a Rebaudengo? Arrivi lì per prendere una metropolitana che nei primi 7 anni servirà 5/7 fermate. Chi le userà? Adesso il sogno è portare la metro fino al Politecnico per dare un senso alla linea, ma stiamo parlando di uno sviluppo di (forse) quindici vent’anni e nel frattempo? 

Quindi la metro a Pescarito rimane un sogno nel cassetto?
Sarebbe un sogno razionale: Pescarito, Strada San Mauro, via Bologna fino al Politecnico. Ma ad ora la vedo quasi impossibile. Allora insisto: ridateci un mezzo di pubblico in più, cominciate a compensare quelle legittime esigenze già acquisite dal territorio.Quindi, in sostanza, 8 e 57, nella speranza che entrambi possano servire Barca Bertolla e San Mauro Torinese.  

Anche la Pragranda è colpita da una damnatio memoriae
Il problema della Pragranda rimane la logistica viaria, ovvero come fare girare il pullman. Non ci sono molte possibilità: o si passa lungo l’asse costituito da via Canonico Tancredi, Via Ronchi, Via Aosta, Via Speranza, via Settimo, Piazza Mochino e di li fino a Sambuy, oppure si deve rendere maggiormente performante la linea interna sanmaurese SM2, con passaggi ogni 8-10 minuti al massimo, per poter offrire un rapido supporto alle linee 8 e (speriamo) in futuro anche al 57.

 

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